mercoledì 16 novembre 2016

Alberto Giacometti, considerazioni inattuali.

“In fondo, ho nettissimamente cominciato a voler lavorare dal vero verso il 1945. C'è stata in me una scissione totale tra la visione fotografica del mondo e la mia propria. È stato il momento in cui la realtà mi ha sorpreso come mai prima. Prima quando uscivo dal cinema non accadeva nulla, la visione dello schermo si proiettava sulla visione della realtà. Poi d'un tratto c'è stata una frattura, ciò che accadeva sullo schermo non somigliava più alla realtà e io guardavo la gente nella sala come se non l'avessi mai vista. È stato allora che ho nuovamente provato la necessità di dipingere, di fare della scultura, perchè la fotografia non mi dava in nessun modo visione della realtà”. Sta parlando Alberto Giacometti scultore e pittore svizzero di fronte ad un bivio della sua produzione pittorica e scultorea. Prima infatti si era occupato di scultore surrealiste e cubiste, Andrè Breton lo volle nel gruppo dei surrealisti, troppo affini agli intenti del manifesto erano le sue opere (fig. 1.2). 

Fig. 1 A. Giacometti, Donna distesa che sogna, 1929


Fig. 2 A. Giacometti, Punta nell'occhio, 1932




Quando però Giacometti ritornò alla fase della scultura dal vero, con Breton fu la rottura, l'unica fonte per quest'ultimo doveva essere la componente onirica, giammai il reale. Lo stesso Alberto affermò in una intervista del 1962 che vedeva quel periodo surrealista come transitorio, lo affascinavano più gli artisti che le opere. Ora con questa nuova visione della realtà che l'artista ci ricorda come contrapposta al cinema, la realtà e il cinema, così come la fotografia sono antitetiche, la realtà contiene un surplus che l'artista deve tirare fuori. La fase più conosciuta e nota delle sculture scheletriche di Giacometti ha origine da un'opera del 1936, la donna che cammina, una scultura filiforme molto classica, senza braccia e acefala (fig. 3). 
Fig. 3 A. Giacometti, Donna che Cammina 1934



La posizione denota solo un'accenno del passo e la struttura è a colonna, molto affine alle sculture egizie che Giacometti tanto amava. Da quest'opera fu tutto un processo di sottrazione più che di addizione per cercare il valore aggiunto della nuova realtà sentita dal maestro. Le statue con l'ossessione dello studio dal vero, diventavano sempre più piccole. C'è una sintonia con la filosofia esistenzialista di Sarte, i due si sono conosciuti e si sono frequentati, tuttavia sembra che la poetica di Sartre sia stata più influenzata da Giacometti che viceversa, come spesso si è tentato di affermare. Leggiamo nell'Essere e il Nulla: "Esiste una quantità infinita di realtà che sono abitate nella loro infrastruttura dalla negazione, come condizione necessaria della loro esistenza. La funzione della negazione varia a seconda della natura dell'oggetto considerato. Diviene impossibile in ogni caso respingere queste negazione in un nulla extra-mondano perchè esse sono disperse nell'essere, sostenute da esso e dalle condizioni della realtà. Il nulla se non è sostenuto dall'essere, svanisce in quanto nulla e noi ricadiamo nell'essere. Il nulla non si può annullare che sulla base dell'essere, se del nulla può essere dato, ciò non avviene ne prima ne dopo l'essere, nè in caso generale, al di fuori dell'essere, nel suo nocciolo, come verme". Il nulla come condizione dell'essere e viceversa, Giacometti ha imparato da Sarte che il vuoto e l'essere stesso, e il processo di spogliazione dell'essere umano fino a renderlo osseo, rivela questa apparente contraddizione. E' il poeta Giorgio Soavi ad avvertirci “"La traccia più nobile della sua arte sta in quello che non dice" , l'essenza sta nel non detto, nel non rivelato.
Le sculture si fanno sempre più piccole tanto da farle stare in una scatola di fiammiferi, ma esse sono ben ancorate al suolo, alla terra, le figure hanno dei pesanti piedistalli, stanno in su grazie a piedi sproporzionati spesso rispetto al resto del corpo. Il maestro ci mette all'erta: “ " ho continuamente l'impressione della fragilità degli esseri viventi, come se fossero continuamente minacciati di collasso e occorresse loro un'enorme quantità di energia in ogni istante per restare in piedi. È nella fragilità che le mie sculture sono realistiche". Fragilità, realtà, essere, nulla: concetti che prendono vita anche nella declamata “impossibilità” di raggiungere l'assoluto, rincorso con ogni mezzo durante tutta la vita di Giacometti. Consapevole dell'impossibilità di raggiungerlo in una tensione che però non ha fine: “Cosa possa oggi significare la scultura e a cosa corrisponda non ne so ancora niente; fino ad oggi sono stati tentativi falliti, ricerche, non è stato fare della scultura, è un tastare il terreno per trovare cosa si può farne". Con queste parole pronunciate alla fine della sua vita Giacometti ribadische che il destino è il fallimento oppure la morte. Molte sue opere non sono state esposte perchè le distruggeva o le modificava in continuazione. Quando andava a dormire dopo aver lavorato tutta la notte fino ad essere esausto, il fratello Diego portava a fondere alcuni gessi lasciati sul tavolo e non ancora finiti, molte opere che oggi ammiriamo ci sono pervenute solo grazie alla prontezza del fratello che letteralmente le sottraeva al maestro per esporle e venderle.
Solo nel 1947 con la celebre scultura “l'uomo che cammina” (Fig. 4) Giacometti si trova nella sua maturità stilistica. 

Fig. 4 A. Giacometti, Uomo che cammina 1947.

É la figura di un uomo saldamente ancorato al terreno con dei piedi enormi, leggermente flesso in avanti e con le braccia lungo il corpo è una visione di un uomo a 10 metri di distanza. “E' questa che bisogna rendere, e a dieci metri di distanza. Bisogna che, a scultura finita, si abbia la sensazione che si trovi a dieci metri e che stia camminando”. La superficie del corpo è scabra e precaria, il principio della sottrazione ha raggiunto una forma, un limite. Le sue opere evocano la morte, spesso Giacometti si sofferma nei suoi scritti su questo tema. Nel racconto “il sogno, lo Sphinx e la morte di T, l'artista si sofferma sulla morte di T, un personaggio realmente vissuto cui ha assistito per caso alla sua sua morte: “"Strada facendo rividi T nei giorni che precedettero la sua morte, nella camera attigua alla mia, nel piccolo padiglione in fondo al giardino dove entrambi abitavamo. Lo rividi sprofondato nel letto, immobile, la pelle giallo avorio, tutto raggomitolato su se stesso e già stranamente lontano, e lo rividi poco dopo, alle tre del mattino, morto, le membra di una magrezza scheletrica, proiettate davanti divaricate, abbandonate lontano dal corpo, un enorme ventre gonfio, la testa riversa, la bocca spalancata. Mai nessun cadavere mi era parso così nullo, avanzo miserabile da gettar via come il cadavere di un gatto sul bordo di una strada. In piedi, immobile di fronte al letto, guardavo quella testa divenuta oggetto, minuscola scatola, misurabile, insignificante.” Il cranio diventa un oggetto, come una scatola, senza vita, eppure mai come ora il rapporto vita morte si restringe. Ancora una volta è Sartre a illuminarci sull'opera di Giacometti, ammetto che: «a prima vista sembra di avere davanti gli scheletrici martiri di Buchenwald (campo di concentramento). Ma un momento dopo hai un’impressione del tutto diversa: queste figure sottili e slanciate s’innalzano verso il cielo».
Spesso l'arte e la vita sono uniti negli artisti, anche in molte forse troppe esperienze del contemporaneo, ma in Giacometti vi è un rigore intellettuale che lo spinge ad essere tutt'uno con le sue opere, magistralmente Cartier-Bresson lo ha ritratto sotto la pioggia nell'atteggiamento di riparo dal mondo, chino come le sue statue con la testa appena fuori del cappotto, sembra abbozzata come i coni filiformi (le teste) che campeggiano nelle sue tarde opere. (Fig. 5)

Fig. 5 Henri Cartier-Bresson, Giacometti che
attraversa Rue D'Alesia, 1961


Bibliografia:

Alessandro Del Puppo, Giacometti e la nuova immagine dell'uomo, il sole 24 ore, E-Ducational 2008

Giorgio Soavi, Il sogno di una testa, ed, Mazzotta, Milano 2000

Alberto Giacometti, Scritti, AbsCondita, 2001 Milano.



Gerard-Georges Lemaire, Giacometti, in ARTe Dossier, Giunti 

2 commenti:

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  2. Ciao Marco.
    Che bello, ho conosciuto meglio Giacometti che nei miei studi era sempre messo in disparte, non so perché.
    Credo che nei suoi lavori volesse tirare fuori l'anima, solo che il più delle volte spariva perché trasformata in nulla. Ci credo che si arrabbiasse e distruggesse tutto! Era una cosa molto difficile forse impossibile da realizzare...ma non amo molto la parola impossibile...non so...
    Abbraccio grande ed eccellente post. Ciao.

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