mercoledì 16 novembre 2016

Alberto Giacometti, considerazioni inattuali.

“In fondo, ho nettissimamente cominciato a voler lavorare dal vero verso il 1945. C'è stata in me una scissione totale tra la visione fotografica del mondo e la mia propria. È stato il momento in cui la realtà mi ha sorpreso come mai prima. Prima quando uscivo dal cinema non accadeva nulla, la visione dello schermo si proiettava sulla visione della realtà. Poi d'un tratto c'è stata una frattura, ciò che accadeva sullo schermo non somigliava più alla realtà e io guardavo la gente nella sala come se non l'avessi mai vista. È stato allora che ho nuovamente provato la necessità di dipingere, di fare della scultura, perchè la fotografia non mi dava in nessun modo visione della realtà”. Sta parlando Alberto Giacometti scultore e pittore svizzero di fronte ad un bivio della sua produzione pittorica e scultorea. Prima infatti si era occupato di scultore surrealiste e cubiste, Andrè Breton lo volle nel gruppo dei surrealisti, troppo affini agli intenti del manifesto erano le sue opere (fig. 1.2). 

Fig. 1 A. Giacometti, Donna distesa che sogna, 1929


Fig. 2 A. Giacometti, Punta nell'occhio, 1932




Quando però Giacometti ritornò alla fase della scultura dal vero, con Breton fu la rottura, l'unica fonte per quest'ultimo doveva essere la componente onirica, giammai il reale. Lo stesso Alberto affermò in una intervista del 1962 che vedeva quel periodo surrealista come transitorio, lo affascinavano più gli artisti che le opere. Ora con questa nuova visione della realtà che l'artista ci ricorda come contrapposta al cinema, la realtà e il cinema, così come la fotografia sono antitetiche, la realtà contiene un surplus che l'artista deve tirare fuori. La fase più conosciuta e nota delle sculture scheletriche di Giacometti ha origine da un'opera del 1936, la donna che cammina, una scultura filiforme molto classica, senza braccia e acefala (fig. 3). 
Fig. 3 A. Giacometti, Donna che Cammina 1934



La posizione denota solo un'accenno del passo e la struttura è a colonna, molto affine alle sculture egizie che Giacometti tanto amava. Da quest'opera fu tutto un processo di sottrazione più che di addizione per cercare il valore aggiunto della nuova realtà sentita dal maestro. Le statue con l'ossessione dello studio dal vero, diventavano sempre più piccole. C'è una sintonia con la filosofia esistenzialista di Sarte, i due si sono conosciuti e si sono frequentati, tuttavia sembra che la poetica di Sartre sia stata più influenzata da Giacometti che viceversa, come spesso si è tentato di affermare. Leggiamo nell'Essere e il Nulla: "Esiste una quantità infinita di realtà che sono abitate nella loro infrastruttura dalla negazione, come condizione necessaria della loro esistenza. La funzione della negazione varia a seconda della natura dell'oggetto considerato. Diviene impossibile in ogni caso respingere queste negazione in un nulla extra-mondano perchè esse sono disperse nell'essere, sostenute da esso e dalle condizioni della realtà. Il nulla se non è sostenuto dall'essere, svanisce in quanto nulla e noi ricadiamo nell'essere. Il nulla non si può annullare che sulla base dell'essere, se del nulla può essere dato, ciò non avviene ne prima ne dopo l'essere, nè in caso generale, al di fuori dell'essere, nel suo nocciolo, come verme". Il nulla come condizione dell'essere e viceversa, Giacometti ha imparato da Sarte che il vuoto e l'essere stesso, e il processo di spogliazione dell'essere umano fino a renderlo osseo, rivela questa apparente contraddizione. E' il poeta Giorgio Soavi ad avvertirci “"La traccia più nobile della sua arte sta in quello che non dice" , l'essenza sta nel non detto, nel non rivelato.
Le sculture si fanno sempre più piccole tanto da farle stare in una scatola di fiammiferi, ma esse sono ben ancorate al suolo, alla terra, le figure hanno dei pesanti piedistalli, stanno in su grazie a piedi sproporzionati spesso rispetto al resto del corpo. Il maestro ci mette all'erta: “ " ho continuamente l'impressione della fragilità degli esseri viventi, come se fossero continuamente minacciati di collasso e occorresse loro un'enorme quantità di energia in ogni istante per restare in piedi. È nella fragilità che le mie sculture sono realistiche". Fragilità, realtà, essere, nulla: concetti che prendono vita anche nella declamata “impossibilità” di raggiungere l'assoluto, rincorso con ogni mezzo durante tutta la vita di Giacometti. Consapevole dell'impossibilità di raggiungerlo in una tensione che però non ha fine: “Cosa possa oggi significare la scultura e a cosa corrisponda non ne so ancora niente; fino ad oggi sono stati tentativi falliti, ricerche, non è stato fare della scultura, è un tastare il terreno per trovare cosa si può farne". Con queste parole pronunciate alla fine della sua vita Giacometti ribadische che il destino è il fallimento oppure la morte. Molte sue opere non sono state esposte perchè le distruggeva o le modificava in continuazione. Quando andava a dormire dopo aver lavorato tutta la notte fino ad essere esausto, il fratello Diego portava a fondere alcuni gessi lasciati sul tavolo e non ancora finiti, molte opere che oggi ammiriamo ci sono pervenute solo grazie alla prontezza del fratello che letteralmente le sottraeva al maestro per esporle e venderle.
Solo nel 1947 con la celebre scultura “l'uomo che cammina” (Fig. 4) Giacometti si trova nella sua maturità stilistica. 

Fig. 4 A. Giacometti, Uomo che cammina 1947.

É la figura di un uomo saldamente ancorato al terreno con dei piedi enormi, leggermente flesso in avanti e con le braccia lungo il corpo è una visione di un uomo a 10 metri di distanza. “E' questa che bisogna rendere, e a dieci metri di distanza. Bisogna che, a scultura finita, si abbia la sensazione che si trovi a dieci metri e che stia camminando”. La superficie del corpo è scabra e precaria, il principio della sottrazione ha raggiunto una forma, un limite. Le sue opere evocano la morte, spesso Giacometti si sofferma nei suoi scritti su questo tema. Nel racconto “il sogno, lo Sphinx e la morte di T, l'artista si sofferma sulla morte di T, un personaggio realmente vissuto cui ha assistito per caso alla sua sua morte: “"Strada facendo rividi T nei giorni che precedettero la sua morte, nella camera attigua alla mia, nel piccolo padiglione in fondo al giardino dove entrambi abitavamo. Lo rividi sprofondato nel letto, immobile, la pelle giallo avorio, tutto raggomitolato su se stesso e già stranamente lontano, e lo rividi poco dopo, alle tre del mattino, morto, le membra di una magrezza scheletrica, proiettate davanti divaricate, abbandonate lontano dal corpo, un enorme ventre gonfio, la testa riversa, la bocca spalancata. Mai nessun cadavere mi era parso così nullo, avanzo miserabile da gettar via come il cadavere di un gatto sul bordo di una strada. In piedi, immobile di fronte al letto, guardavo quella testa divenuta oggetto, minuscola scatola, misurabile, insignificante.” Il cranio diventa un oggetto, come una scatola, senza vita, eppure mai come ora il rapporto vita morte si restringe. Ancora una volta è Sartre a illuminarci sull'opera di Giacometti, ammetto che: «a prima vista sembra di avere davanti gli scheletrici martiri di Buchenwald (campo di concentramento). Ma un momento dopo hai un’impressione del tutto diversa: queste figure sottili e slanciate s’innalzano verso il cielo».
Spesso l'arte e la vita sono uniti negli artisti, anche in molte forse troppe esperienze del contemporaneo, ma in Giacometti vi è un rigore intellettuale che lo spinge ad essere tutt'uno con le sue opere, magistralmente Cartier-Bresson lo ha ritratto sotto la pioggia nell'atteggiamento di riparo dal mondo, chino come le sue statue con la testa appena fuori del cappotto, sembra abbozzata come i coni filiformi (le teste) che campeggiano nelle sue tarde opere. (Fig. 5)

Fig. 5 Henri Cartier-Bresson, Giacometti che
attraversa Rue D'Alesia, 1961


Bibliografia:

Alessandro Del Puppo, Giacometti e la nuova immagine dell'uomo, il sole 24 ore, E-Ducational 2008

Giorgio Soavi, Il sogno di una testa, ed, Mazzotta, Milano 2000

Alberto Giacometti, Scritti, AbsCondita, 2001 Milano.



Gerard-Georges Lemaire, Giacometti, in ARTe Dossier, Giunti 

mercoledì 19 ottobre 2016

Mark Rothko: colore materia della parete.

Negli anni dal 1946 al 1949 Mark Rothko inizia una fase transitoria della sua produzione artistica i cosiddetti Multiforms. Il suo collega e amico Bernett Newmann aveva esortato il mondo durante la guerra a questa evenienza: "noi percepivamo la crisi morale di un mondo che era un campo di battaglia, di un mondo che era devastato dalla tremenda distruzione di una guerra mondiale incombente... Era impossibile disegnare come prima : fiori, nudi sdraiati, suonatori di violoncello."
La scelta non era tra figurativo ed astratto, ma si sentiva il bisogno di nuovo, dopo la guerra nulla era più come prima "Non credo che il problema sia se dipingere in modo astratto o figurativo. Piuttosto si tratta di por fine a questo silenzio, a questa solitudine, respirare di nuovo e poter tendere ancora le braccia". Respirare di una libertà ripresa e tendere le braccia a nuovi orizzonti e sperimentalismi. I Multiforms sono circa una novantina di quadri eseguiti in tre anni da Rothko, il nome Multiforms gli è stato dato postumo dalla critica degli anni Settanta. Questo è un passaggio cosiddetto intermedio della produzione pittorica di Rotkho, preludio di quella che sarà la "produzione classica" del pittore. Fino ad allora l'influenza surrealista e figurativa si era imposta nella pittura di Rothko. Ora l'astrazione è totale, l'influenza è sicuramente ascrivibile a Pierre Bonnard un tardo impressionista (fig. 1) che considerava " Il quadro ... un susseguirsi di macchie che si legano tra loro e finiscono per formare l'oggetto, sulle cui parti l'occhio incede senza strappo." 
Fig. 1 Pierre Bonnard, La Seine à Vernon 1927


Non ci sono buchi nelle Multiforms di Rothko (fig. 2,3) ogni angolo è dipinto: le forme diventano macchie cromatiche prive di consistenza, sfocate che paiono sorgere all'interno di un dipinto, non c'è soluzione di continuità nel quadro. 
Fig. 2 Mark Rothko N° 18, 1948

Fig. 3 Mark Rothko, Untitled, 1948

Queste rappresentazioni sono portatrici di significato sono "organismi" "con la passione per l'asserzione in sè". Qui subentra anche un nuovo concetto di bellezza afferma infatti Rothko:  "L'identità familiare delle cose va ridotta in polvere, allo scopo di eliminare le associazioni limitate con cui la società riveste sempre più ogni aspetto del nostro ambiente", vi è una dissoluzione delle cose non ci sono più familiari, viviamo in questa condizione in mezzo ad una specie di polvere. Marx aveva detto in proposito riguardo alla società capitalista un secolo prima "Tutto ciò che è solido si scioglie nell'aria". Questa evanescenza si imprime nella tela una tela fluida in cui il titolo è assente "Tra gli artisti è diffusa l'opinione che quanto si rappresenta sia indifferente, purchè lo si rappresenti bene. Questa è pura accademia. Non c'è nulla di meglio di un quadro sul nulla. Noi crediamo che la materia sia essenziale, come lo è il ciclo tematico, tragico e senza tempo. Sotto questo aspetto ci sentiamo molto legati all'arte primitiva arcaica." Un quadro sul nulla, non è semplicistica rappresentazione del nulla come qualche artista arriva a dipingere con dei monocromi, ma diretta emozione dei colori che non rimanda a forme conosciute: "fiori, nudi sdraiati, suonatori di violoncello." citando Newmann, ma sensazioni.
La fase matura "classica", e più conosciuta della pittura di Rothko è la stratificazione delle bande di colore sulla tela,(fig. 4,5) contrasti drammatici, "tragici" li chiama il pittore di colori diversi. 
Fig. 4 Mark Rothko, n° 61, 1953
Fig. 5 Mark Rothko, N° 1958 White, Red on yellow


Tragico non nel senso di dramma, ma nel senso nietzschiano della parole di accostamento dei contrari Apollineo e Dionisiaco convivono nella tragedia greca così come convive una banda nera e una rossa (fig. 6) una verde e una rossa due bianche e una nera (fig. 7 aNo3/n.13). 
Fig. 6 Mark Rothko, N° 24, 1951
Fig. 7 Mark Rothko, aNo3/No 13 Magenta,
Black, Green on Orange, 1949

I quadri iniziano ad essere sempre più grandi, la cornice sparisce e si introduce il tema del muro cui applicare la tela. Rothko non voleva che le opere fossero appese su muri bianchi che ricordavano le sale da ospedale, ma da pareti irregolari e accidentate, era ossessionato dal finto decorativismo che alcuni quadri producono alle pareti. Il tema del muro è stato affrontato mirabilmente da Argan che cita Rothko come colui che costruisce una parete servendosi del colore. Già nella storia il muro aveva avuto diverse declinazioni, nell'architettura gotica il muro veniva colorato con vetrate luminose tra i pilastri delle cattedrali, nell'architettura moderna razionale, il muro veniva smaterializzato con il vetro tanto che interno ed esterno andavano a confondersi (fig. 8 ), nel neoplasticismo architettura e pittura si fondevano nel muro (fig. 9) fino ad arrivare a Frank Lloyd Wright e Rothko appunto in cui dice Argan, vi è "l'affermazione del valore visivo della parete".
Fig. 8 Walter Gropius, Fabbriche Fagus, 1911.

Fig. 9 Gerrit Rietveld,  Casa Schröder a Utrecht, 1924


Il colore è il nuovo materiale per l'architettura che inonda lo spazio di forte emotività. Sempre più le opere di Rothko fanno attenzione allo spazio teatrale in cui sono esposte, non semplici musei, ma stenze con diverse opere sue in cui l'una evocasse il carattere dell'altra in una sinfonia di colori che suggestionasse lo spettatore. Come un insieme di casse acustiche messe in circolo che suonano la stessa musica producono un suono d'insieme molto suggestivo e avvicinandosi ad ogniuna si percepisce un timbro diverso, una tonalità diversa, i quadri di Rothko che occupano intere pareti creano un insieme armonioso ma allo stesso tempo ogni quadro ha un suo specifico "suono" (fig. 10) 

Fig. 10 The Rothko Room, Philips Collection, 1961


C'è il rapporto tra i quadri ma c'è anche il rapporto con l'osservatore, le dimensioni dereminano un avvolgimento del colore dice l'artista: "l dipinto non può vivere nell'isolamento. Ha bisogno dello sguardo di un osservatore sensibile per potersi ridestare e sviluppare. Senza quello sguardo il dipinto muore. Ogni volta che ci si congeda dall'opera e la si consegna al mondo si compie un gesto rischioso e spietato. Quante volte il nostro dipinto sarà irrimediabilmente offeso dallo sguardo volgare o crudele di coloro che vogliono riempire l'intero universo della loro meschinità della loro impotenza!!!" Mark Rothko "The Tiger's Eye".1947. l fatto di non limitare il quadro alle catene dei quattro lati in cui è rinchiuso dalla cornice ma di espandersi in una spazialità in cui lo spettatore si vede immerso indica il tentativo di rottura dello spazio profano, come ha ampiamente dimostrato la Rothko Chapel (fig. 11) entriamo nel mondo del sacro.
Fig. 11, The Rothko Chapel, 1971.


L'opera del nostro autore è permeata di una teoria fitta di scritti che spiegano ed esaltano la trama intellettuale del suo lavoro. I suoi dipinti ora non hanno titoli solo numeri afferma infatti ""I nostri dipinti non si possono spiegare attraverso annotazioni. Queste spiegazioni devono scaturire soltanto dallo scambio reciproco tra dipinto e osservatore. L'amore per l'arte è un connubio di idee..."
Molta parte della critica si è soffermata sul fatto che Rothko avesse dipinto un'unica opera e che le altre non fossero che variazioni su tema, dall'altra parte Donald Judd un artista che lo ha molto criticato ed amato diceva di lui "la prima opera che l'artista sembra appartenergli, non è una soluzione che limita le possibilità di un'opera ma un'opera che apre a possibilità sconfinate", quindi contrariamente a certa critica questa presunta serialità non era un limite ma una possibilità di apertura a nuove sperimentazioni.

Bibliografia:
Jacob Baal-Teshuva, Rothko, Ed. Taschen, 2003

Venturi Riccardo, Mark Rothko, lo spazio e la sua disciplina, Electa 2007

lunedì 26 settembre 2016

I paesaggi urbani di Mario Sironi.

Siamo nel biennio 1919-21 Mario Sironi è appena tornato dalla guerra, l'Italia è un paese da ricostruire. Sironi descrive la periferia una periferia milanese in continuo cambiamento. Nel 1911 infatti gli abitanti del centro erano 234054 mentre fuori dalle mura spagnole vivevano 372623 persone; nel 1921 l'anno di cui ci stiamo occupando, le cifre passarono rispettivamente a 255360 e 463440, con una forte differenza sociale tra il centro e la periferia. La città è monocentrica la ricca borghesia si arrocca sulle vecchie mura del centro storico. Sironi enfatizza il dramma dello squallore della periferia, i suoi paesaggi sono deserti con qualche persona a delineare la solutudine dei luoghi extra moenia (fig. 1,2).

Fig. 1 Mario Sironi, Paesaggio urbano 1927

Fig. 2 Mario Sironi Paesaggio urbano 1920.

Il tema della città era già stato affrontato dai futuristi di cui Sironi fece parte anche se in maniera marginale. I temi sono quelli del futurismo, la città, la velocità, il dinamismo ma la declinazione che ne da Sironi è tutta particolare e personale. 
Ad esempio un soggetto molto amato e rappresentato dai futuristi non solo italiano fu il ciclista, nel 1913 Boccioni (fig. 3) nel suo perfetto stile ne rappresenta la velocità, il dinamismo la scomposizione cubo futurista, la sfida era quella di rappresentare il movimento in un supporto: la tela dipinta che non è mobile.

Fig. 3 Umberto Boccioni. Dinamismo di un ciclista 1913


Da un altra parte del mondo in Russia Natalia Goncharova (Fig. 4)rappresentava il ciclista sempre in maniera dinamica ma più vicina al cubismo, con una sovrapposizione di paesaggi quasi ad essere il ciclista stesso che vede forme, scritte, edifici in movimento.
Fig. 4 Natalia Goncharova Il ciclista 1913



Arriviamo al limite del futurismo con Fortunato Depero (Fig. 5), che, rinunciando al qualsiasi tipo di stilema rappresenta il movimento in sè, il paesaggio è sparito, rimangono solo le linee del vento e della velocità.
Fig. 5 Fortunato Depero, ciclista moltiplicato 1922.




Sironi dal canto suo coniuga in soggetto in maniera del tutto personale (fig.6) siamo nel 1916, la sua adesione al futurismo è opera fatto si è detto, con dei distinguo. La dinamicità è più rozza più fumettistica diciamo, le linee sulla strada denunciano il movimento, la ruota si capisce che gira, ma il paesaggio è immobile, fermo, si già sta delineando la poetica dei paesaggi urbani.

Fig. 6 Mario Sironi Il ciclista 1916

Il paesaggio si nota in questo quadro è immobile anonimo, non dinamico e seriale. 


Sempre nel 1921 Massimo Bontempelli scrive di un viaggio alle periferie milanesi nel suo racconto "La vita operosa", vi si legge in esso: "ma già le piazze e le vie si facevano mano a mano meno affollate e meno illustri. L'aspetto delle botteghe e delle case graduava rapidamente dalla metropoli al suburbio. Entrammo nell'ignoto. Raggiungemmo l'aborigeno. Ogni tanto la carrozza, mossa da non so quali occulte cagioni, invece di proseguire diritta svoltava in vie laterali, e quasi a ognuna di quelle mutazioni di rotta il colore delle muraglie e dei selciati si faceva più languido e afflitto. Le sfilate dei muri grigi presentavano ormai rara l'interruzione d'una donchisciottesca barberia o d'una drogheria sudicia rinforzata dalla giunta d'un romantico bar."
Vi è una forte monotonia in questi quadri le case i palazzi sono una serie noiosa e seriale di finestre simmetriche (fig.7,8,9) ciò potrebbe far pensare ad un Sironi metafisico che "interpreta" De Chirico, con i suoi paesaggi vuoti e deserti e le sue piazze (fig. 10).

Fig. 7 Mario Sironi Paesaggio urbano 1921.

Fig. 8 Mario Sironi Paesaggio urbano 1922

Fig. 9 Mario Sironi Paesaggio urbano 1919 schizzo.

Fig. 10 De Chirico Piazza d'Italia 1915






 L'influenza dechirichiana si è sicuramente fatta sentire ma vedo in Sironi anche un intento politico, manifestamente pro proletariato. La speculazione edilizia era ai massimi livelli, le abitazioni suburbane erano dormitori senza alcun servizio connesso, la fame di case favoriva la vendita di residenze di scarsa qualità e di una desolante metropoli periferica. Le composizioni sironiane sono plastiche ed immobili un richiamo forse ai paesaggi di Masaccio o di Piero della Francesca. (fig. 11) notiamo ad esempio il fondale del ritrovamento della vera Croce ad Arezzo del 1460, la plasticità, la semplice geometria delle architetture ricordano sicuramente Sironi e con lui altri novecentisti.

Fig. 11 Piero della Francesa, Ritrovamento della vera croce 1460


Siamo di fronte ancora una volta ad un intento politico, lo stile propriamente italiano di modellare forme cubiche con "valori plastici" molto forti, era un richiamo ai valori nazionalistici da parte di Sironi. Fascista sin dagli albori del movimento e mai pago dei suoi ideali, aderì alla Repubblica di Salò, vedeva assieme a Marinetti la causa del lavoratore legata a quella della patria. Marinetti auspicava nei suoi scritti futuristi oltre al suffragio universale, alla giornata lavorativa di otto ore e al diritto allo sciopero e, accanto a questi l'educazione patriottica del proletariato e l'orgoglio di tutto il popolo italiano.
I paesaggi urbani di Sironi, non solo trapelano mistero e cupezza, ma anche covano una violenza repressa, in quel periodo 1920 erano molto forti le tensioni sociali, molti operai si ribellavano alle stette paghe e agli orari di lavoro troppo lunghi, i sindacati avevano sempre più aderenti. Nei dipinti le fabbriche hanno forme aggressive il soggetto principale diviene un autocarro austero e minaccioso, quasi una sentinella che vigila sulla quiete sociale (fig. 12,13). 
Fig. 12 Mario Sironi Paesaggio urbano, 1922

Fig. 13 Mario Sironi Paesaggio urbano, 1921


Il modello ripetuto sembra sia stato il FIAT 18 Bl, usato sia per motivi militari che civili, ma che durante il fascismo portava gli squadristi a compiere i loro atti punitivi! In una illustrazione del 1939 sulla rivista "Viva il duce" Sironi pubblicherà lo stesso autovettura pieno di squadristi con armi e bandiere (fig. 14)

Fig. 14 Mario Sironi Ventitrè Marzo 1919, 1939

Ma al di là degli intenti politici sironiani siamo di fronte ad un fenomeno che interesserà tutta l'Europa, cioè l'anonimità delle periferie, la loro mancanza di genius loci, il loro essere non-luoghi, cupi tristi che più che essere il luogo del riposo domestico diventano il luogo del disagio sociale e dello spaesamento.

Un architetto post moderno come Aldo Rossi, deve molto ai paesaggi urbani di Sironi molti dei suoi disegni hanno le stesse caratteristiche del pittore sassarese (fig. 15.16)

Fig. 15 Mario Sironi Paesaggio con ciminiere, 1939


Fig. 16 Aldo Rossi, Progetto per una torre 1996
Bibliografia:
Emily Braun, Mario Sironi Arte e politica in Italia sotto il fascismo, Bollati Boringhieri 2003
Rossana Bossaglia, Sironi e il Novecento, in Art e Dossier 1991.










giovedì 23 giugno 2016

Paul Klee punti spunti su un pittore estemporaneo.



Mai nella storia delle avanguardie artistiche del 900 ci si imbatte in una figura così particolare e unica come Paul Klee. Nativo di Berna la sua non può essere semplicemente annoverata tra le pitture d'avanguardia che scimiottavano il cubismo e il futurismo. Se infatti la sua è una pittura astratta per alcuni versi può essere considerata più naturale e vera di quella dei cubistie e dei futuristi. Mentre infatti i futuristi volevano "fermare" il movimento, rappresentare il mondo frenetico della metropoli, e, come "fermare" sulla tela qualcosa che si muove.... lo scacco era là ad aspettarli, la contraddizione era palese, il loro tentativi sono stati affrontati in vario modo: o le forme puntinate di Boccioni o i raggi e le spirali di Balla. Dall'altra parte la scomposizione dello spazio cubista di Picasso partiva comunque da una realtà e tentava di decomporla, interpretando una nuova visione che mirava ad oltrepassare lo spazio prospettico rinascimentale. Klee va in un'altra direzione ciò che a lui interessa dell'arte è la genesi, il movimento in una accezione diversa dai futuristi abbiamo visto. La sua pittura parte sempre dalla natura dal vero ma non è un semplice processo mimetico il suo vuole rendere visibili anche le cose invisibili. "l'arte non ripete le cose visibili ma rende visibile" nell'incipit di un suo scritto molto importante "Confessione Creatrice" in cui si intuiscono le sue letture Goethiane.
Goethe lo si trova sempre nell'opera pittorica di Klee, soprattutto per il suo rapporto con la natura e la sua genesi. Noto è il brano di Goethe nel suo viaggio in Italia nel quale descrive la sua esperienza all'orto botanico di Palermo. Infatti osservando le varia parti delle piante intuì che queste non sono che frammenti, parti di una pianta madre primordiale, archetipo della pianta. Non ci sono disegni di essa essendo puramente ideale: un eidos platonico. Siamo molto lontani dalla concezione darwinista dell'evoluzionismo, e Klee abbraccia questa idea goethiana della genesi della primordialità delle cose di natura. Il legame di Klee con la natura è inscindibile, anche nei suoi quadri più astratti esiste sempre una traccia dell'elemento naturale, a differenza di altra pittura astratta per esempio quella di Kandinsky in cui vi sono anche paesaggi "dell'anima" totalmente lontani da qualunque rapporto mimetico con la natura. Klee non imita le forme visibili ma si rifà ai primordi del visibile, all'origine.
Un quadro in particolare (fig. 1) ci aiuta a capire meglio questi concetti, in occasione di un viaggio in Tunisia in cui Klee rimarrà folgorato dai colori e dal clima dal clima di quei luoghi fino a dire nei suoi diari: 1914 "Interrompo il lavoro. Un senso di conforto penetra in me, mi sento sicuro, non provo stanchezza. Il colore mi possiede. Non ho bisogno di tentare di afferrarlo. Mi possiede per sempre lo sento. Questo è il senso dell'ora felice: io e il colore siamo tutt'uno. Sono pittore".



Fig. 1 Monumento al paese fertile.



 Alcuni critici parlano infatti di due fasi dell'opera di Klee una prima e una dopo il viaggio il Tunisia appunto per questa sua maturità consapevole dell'essere artista, e più che artista "Pittore". Il quadro si diceva è intitolato Monumento al paese fertile, una astrazione di quella che può essere una fotografia dall'alto del paesaggio che da desertico si trasforma in paesaggio fertile, popolato. Ricordando una certa assonanza con le partiture musicale, Klee lo sappiamo è stato un ottimo musicista, il quadro ha una sua logica ritmica: una parte si divide in due, poi in quattro, poi in sedici da destra verso sinistra, ancora qui troviamo una certa idea di movimento nel senso di transizione, passaggio non nel senso dinamico dei futuristi ricordiamolo. Un'altra opera che fissa l'idea del movimento è "Separazione di sera" (fig. 2): riportiamo le sue stesse parole: "intervenendo movimento e contromovimento (salita e caduta), gli opposti collidono (...) la base normativa superiore (scura) è accentuata con maggiore vigore: l'irrompente oscurità prevale".


Fig. 2 Separazione di sera.

 Anche qui ci troviamo di fornte un'opera bidimensionale, Klee ha già fatto una riflessione sulla tridimensionalità nell'arte e nella pittura, tre quadri in particolare spiegano questo: il Ricordo di Gersthofen (fig. 3) nel 1918 ci troviamo di fronte ad una prospettiva pre rinascimentale una prospettiva in cui ci si ricorda di una certa pittura medievale, giottesca direi, la scena è racchiusa in una scatola la cui assonometria non è ben definita. 

Fig. 3 Ricordo di Gersthofen 1918.

L'altro quadro è la "Stanza Prospettica con abitanti" (fig. 4) del 1921: una griglia rigida di linee "incastra" lo spazio, due figure umane sono stese a terra impigliate anche loro nella trama delle linee prospettiche, ci troviamo di fronte alla rigidità della prospettiva rinascimentale, uno spazio scientifico in cui la libertà artistica è quasi schiacciata. 

Fig. 4 Stanza prospettica con abitanti.

La liberazione avviene nel quadro: Nichtkomponiertes Im Raum del 1929 (fig. 5). Lo spazio si è aperto non esistono più rigide linee prospettiche che incasellano lo spazio, è il trionfo della spazialità contemporanea, i volumi fluttuano nello spazio senza alcuna griglia. 

Fig. 5 Nichtkomponiertes Im Raum 


É questa libertà che fa dire Klee l'arte risale alle genesi al processo di formazione, si tratta di attingere ad un fondo segreto come magistralmente ha descritto Marco Vozza nel suo testo: la forma del Visibile: filosofia e pittura da Cezanne a Bacon.: "Non limitandosi a riprodurre il visibile della percezione ottica, l'arte determina quell'ampliamento d'esperienza di cui parlava Fiedler, promuove un incremento d'essere perchè è capace di trasformare bagliori fortuiti in significati strutturati, portando tragicamente alla luce tutti quei mondi possibili, in cui albergano i morti e i non nati, che soltanto un angusto principio di realtà o la perseveranza di un'estetica naturalistica possono trascurare, confinandoli nel regno dell'incompiuto". Si parla di mondi possibili in una dimensione che sta tra la vita e la morte quel mondo di mezzo spiegato nel doppio regno da Rilke nei sonetti ad Orfeo nella prima elegia. È quel doppio regno "la cui profondità o influsso noi, ovunque indelimitati, dividiamo con i morti e con coloro che verranno". E anche il regno degli angeli, troppo imperfetti per essere come Dio e troppo perfetti per essere come gli uomini. È un topos di Klee quello dell'angelo, nessun essere è stato più presente di lui nella sua produzione, sono tuttavia angeli caduchi, infelici con una dubbia femminilità. Il primo di essi è "L'eroe con l'ala" appartiene al primo periodo pittorico di Klee, vi è raffigurato una figura deforme con un'ala sola, di una creatura che ha tentanto di volare ma che resta sempre a terra, cade continuamente ma tuttavia rimane il desiderio del volo, ha perso anche il braccio o forse si è trasformato in ala, un'ala che non gli permette di volare però. "La mia ala è pronta al volo/ritorno volentieri indietro/poiché restassi pur tempo vitale,/ avrei poca fortuna» recita una poesia di Gershom Scholem, amico e scrittore di Walter Benjamin, che ha fatto del quadro Angelus Novus di Klee una vera e propria icona centrale delle sue "Tesi sul concetto di storia". In quest'ultimo testo infatti viene ribaltato il concetto classico di storia sia nella visione hegheliana che quella marxista, l'una il senso ideale la prima, l'altra in senso materialistico la seconda entrambe avevano in comune un concetto di storia lineare, progressiva con una tensione verso il miglioramento, la storia è una freccia rivolta in una certa direzione, con un atteggiamento passivo dello status quo. 

Fig. 6 Angelus Novus

Benjamin sovverte tutto questo: nel rapporto presente-passato si cerca la redenzione attraverso la memeoria. " "È il presente che genera dal suo interno il proprio passato, e il passato non può sussistere indipendentemente da un presente che lo testimonia e lo redime." dice Benjamin. E riguardo al quadro di Klee (fig. 6): "C’è un quadro di Klee che s’intitola Angelus Novus. Vi si trova un angelo che sembra in atto di allontanarsi da qualcosa su cui fissa lo sguardo. Ha gli occhi spalancati, la bocca aperta, le ali distese. L’angelo della storia deve avere questo aspetto. Ha il viso rivolto al passato. Dove ci appare una catena di eventi, egli vede una sola catastrofe, che accumula senza tregua rovine su rovine e le rovescia ai suoi piedi. Egli vorrebbe ben trattenersi, destare i morti e ricomporre l’infranto. Ma una tempesta spira dal paradio, che si è impigliata nelle sue ali, ed è così forte che gli non può chiuderle. Questa tempesta lo spinge irresistibilmente nel futuro, a cui volge le spalle, mentre il cumulo delle rovine sale davanti a lui al cielo. Ciò che chiamiamo il progresso, è questa tempesta."
L'angelo di Klee e di Benjamin è un angelo che cerca qualcosa di positivo affinchè non ci arrendiamo al nichilismo e alla morte del senso che pervade i nostri giorni, ma fa intravvedere pur nella caducità un forma di lotta contro il nulla contemporaneo.


Bibliografia: 

Giuseppe di Giacomo, Introduzione a Klee, Editore Laterza 2004

Argan, Prefazione a Paul Klee, Teoria della forma e della figurazione, Feltrinelli Milano1959

M. Pasquali, Paul Klee figure e metamorfosi,Mazzotta Milano 2000

L. La stella A. Cevernini, Gli infiniti nomi dell'angelo, ed. Inconscio e Società, 2014.

M. Vozza, La forma del Visibile: filosofia e pittura da Cezanne a Bacon. Pendragon 1999.


mercoledì 6 aprile 2016

La torre di Fuoco di Johannes Itten.






Siamo nel 1920, Johannes Itten ha appena ricevuto l'incarico da Gropius di tenere delle lezione di pittura e design al Bauhaus. La capacità creativa e spirituale di Itten nel ricercare forme nuove di arte lo rende unico. Il suo modo di vestire (fig. 1) e il suo atteggiamento nei confronti dello spirito creativo che doveva sprigionare energia da una riflessione personale lo porterà alla rottura con il razionale Gropius, molto più attento al metodo e al sistema dell'insegnamento.


Fig. 1 Foto di Johannes Itten al Bauhaus


Proprio nel 1920 Itten progetta quello che può essere considerato in suo migliore lavoro, "La torre di Fuoco" (fig. 2). Coerentemente con le indicazioni date dal manifesto del Bauhaus in cui si diceva che "le nuove costruzioni del futuro ci sarà tutto in una sola forma: architettura, scultura e pittura", la torre del fuoco mirava a raggiungere questo difficile e complesso connubio.


Fig. 2. La Torre del Fuoco davanti all'atelier di Itten, Weimar, 1920

La forma della scultura è la spirale, Itten diceva : "Essere artista significa avere esperienza vissuta del caos e anelare all'unità della propria opera”. Vivere il caos ma dominarlo nell'opera al dinamismo della spirale si contrappone la staticità, una dicotomia difficile da controllare. È insieme la quiete e il movimento che aspirano all'unità armonica. Costruttivamente la torre del fuoco è un insieme di cubi posti uno sopra l'altro in posizione dinamica di spirale protesa verso l'alto, è costituita di 12 cubi decrescenti con gli angoli dei cubi sfalsati l'uno rispetto all'altro, e raccordati da sezioni coniche di vetro colorato. La torre è accompagnata da diversi disegni preparatori, e fu fatto anche un modello alto 3,60 metri e posto davanti al laboratorio di Itten, questo modello non fu più trovato come anche molti dei disegni preparatori sono andati persi, ce ne rimangono alcuni dai quali poter ricostruire la torre e le sue implicazioni cosmologiche. Per Itten il monumento della torre del fuoco doveva diventare il "simbolo della totalità dell'universo" coerentemente con le sue conoscenze cosmologiche e simboliche. Dodici non a caso sono i cubi sovrapposti, 12 ha un significato particolare non solo per i 12 segni zodiacali, ma anche riferimento alla teoria dei colori e alla teoria musicale di Matthias Hauer, compositore austriaco inventore parallelamente a Schoenberg della dodecafonia nella musica. Inoltre ai segni zodiacali vengono associati i colori: ariete-rosso, toro-azzurro, gemelli-giallo, cancro-violetto, leone-giallo, vergine-rosso arancio, bilancia-azzurro, scorpione-rosso, capricorno-verde, sagittario-porpora, acquario-indaco, pesci-grigio argento.
I dodici cubi della torre sono riuniti in forma di 4 cubi: il primo gruppo di pietra, il secondo gruppo di metallo, il terzo di vetro. Il cubo più in basso raffigura i minerali in 12 sistemi cristallini, gli altri raffigurano le piante gli animali e gli uomini. I quattro cubi centrali accolgono dodici campane. Infine l'ultimo gruppo è attribuito ai 4 elementi. Mentre il vertice è costituito da 4 sfere di luce che simboleggiano il “logos” e il “sole”.
Difficile capire con esattezza il cromatismo della torre e dai diari rimasti si hanno scarse indicazioni.
Itten fu sicuramente influenzato dalla moda delle avanguardie artistiche di raffigurare torri a forma di spirale nei primi anni del novecento. Ricordiamo la torre del lavoro di Rodin (fig. 3) simbolo politico sociale, il monumento di Hermann Obrist con un dinamismo ulteriore dell'inclinazione (fig. 4), e il famoso monumento per la Terza internazionale di Tatlin (fig. 5).




Fig. 3. Rodin, Modello per la torre del Lavoro.



Fig. 4. Hermann Obrist scultura modello ca 1898-1900



Fig. 5 Tatlin Monumento alla Terza Internazionale.

Tutti questi esempi, Itten compreso inneggiavano alla fiducia nel progresso, la freccia verso il cielo, le speranze per il futuro, e tutte avevano come origine il racconto biblico della torre di Babele. Non si considerava però l'aspetto dell'arroganza dell'uomo ad avvicinarsi a Dio punita con la divisione delle lingue e dei popoli, ma il lato positivo della speranza dell'innalzamento a qualcosa di più alto.
Itten sicuramente conosceva la torre di Babele di Pieter Brueghel il Vecchio (fig. 6) allora come oggi esposta al Kunsthistorisches Museum di Vienna.


Fig. 6 Pieter Brueghel il Vecchio, Torre di Babele 1563


Ricordava dai suoi viaggi sia il duomo di Strasburgo (fig. 7) che il duomo di Friburgo (fig. 8).


Fig. 7 Duomo di Strasburgo

Fig. 8 Duomo di Friburgo


E l'opera architettonica che più si coniuga con la torre di Babele è la lanterna di S. Ivo alla Sapienza del Borromini a Roma (fig. 9, 9.a): "“il campanile della chiesa termina in una lanterna a spirale che culmina in una corona di fiamme. La torre di fiamme diventa la sede della saggezza divina, e insieme alla torre di Babele che svetta nel cielo verso Dio si innalza la propria pretesa universale sul globo terrestre." Non a caso la pianta di quest'ultima è divisa in dodici angoli (fig. 10).



Fig. 9 Borromini Sant'Ivo alla Sapienza, foto della lanterna. 


Fig. 9a Disegno autentico di Borromini conservato all'Albertina di Vienna.



Fig. 10 Pianta del S. Ivo alla Sapienza con la divisione in 12 angoli.

Nello stesso periodo ai primi del 900 alcuni archeologi tra cui Robert Koldewey avevano iniziato gli scavi presso Babilonia alla ricerca della torre la ricostruzione della ziqqurat mostravano sempre forme cubiche sovrapposte (fig. 11).


Fig. 11 Robert Koldewey Ricostruzione dei Giardini di Babilonia.

Nei primi anni del Novecento le avanguardie erano in fermento per i nuovi materiali da costruzione inseriti nel panorama architettonico: il vetro e il cemento. Paul Scheerbart nel 1914 aveva dato alle stampe "L'architettura del vetro" un omaggio utopico a questo nuovo materiale, ripreso da Bruno Taut nel suo Il Glaspavillon sempre nel 1914 in occasione dell'esposizione del Deutscher Werkbund di Colonia. Sempre Taut immaginava in Stadtkrone un modello di città utopica cui doveva spiccare un forte elemento elevato al di sopra della città (fig. 12).


Fig. 12 BrunoTaut copertina del libro Die Stadtkrone.


Ma un riferimento per Itten e la torre del fuoco, che per molti anni non è stato considerato è la pittrice svedese Hilma af Klint pioniera dell'astrattismo. Si definiva una pittrice mistica e già ai tempi dell'Accademia svedese diede vita ad un gruppo chiamato “Le cinque” che ritenevano di essere in contatto con entità ultraterrene dette i “Sommi Maestri” che guidavano la loro mano nell'atto di dipingere o disegnare. Molti sono stati i disegni esoterici della Hilma Af Klint che si avvicinò anche all'atroposofia di Rudorlf Steiner, quest'ultimo tuttavia dopo averla incontrata rifiutò il suo approccio medianico all'arte. Dopo questo incontro Hilma Af Klint smise di dipingere per quattro anni. Riprese nel 1912 assumendo maggior controllo nel processo pittorico non più “guidato” dai sommi maestri. Durante tutta la sua vita produsse una gran quantità di quadri e disegni che tuttavia tenne nascosti dicendo di volerli esporre solo venti anni dopo la sua morte, “quando il mondo sarà pronto a questo tipo di arte”. Le sue opere furono così conosciute negli anni 60 e 70 diventando una pioniera indipendente dell'arte astratta ed esoterica. I suoi quadri astratti sono facilmente associabili a Itten sia per il loro approccio alla teoria dei colori che per il loro fondato astrattismo (fig. 13-14).


Fig. 13. Hilma Af Klin, Altarbild Nr.1, Gruppe X, 1915


Fig. 14 Hilma Af Klint 1920.


La torre del Fuoco fu ricostruita nel 1996, con il contributo della Fondazione Antonio Marzotta a Weimar in occasione della mostra "Das Fruhe Bauhaus und Joannes Itten. Per la ricostruzione sono stati interpretati con attenzione i pochi documenti disponibili e le fotografie conservate nell'archivio di Itten. L'analisi ha rivelato l'altezza totale della struttura 3,60 metri con una lunghezza dello spigolo di base di 1,20 metri. I cubi si riducono con un rapporto di 3:1. l'impossibilità di ricreare i colori originali ha posto delle interpretazioni desunte dagli scritti di Itten Le strutture in vetro piombato non servono solo come funzione di un contenuto tecnico, ma applicano fino nei dettagli il simbolismo di Itten. Alle parti della struttura in vetro ha contribuito la vetreria artistica Ernst Kraus la stessa che aveva costruito l'originale nel 1920.
Dopo un'esposizione a Milano del 1996 la torre verrà posta permanentemente nella collezione del Bauhaus Museum di Weimar. (fig. 15,16)

Fig. 15 Ricostruzione della Torre del Fuoco al buio, 1996.

Fig. 16 Ricostruzione della torre all'esposizione sul Bauhaus 1996 Milano.