“In fondo, ho
nettissimamente cominciato a voler lavorare dal vero verso il 1945.
C'è stata in me una scissione totale tra la visione fotografica del
mondo e la mia propria. È stato il momento in cui la realtà mi ha
sorpreso come mai prima. Prima quando uscivo dal cinema non accadeva
nulla, la visione dello schermo si proiettava sulla visione della
realtà. Poi d'un tratto c'è stata una frattura, ciò che accadeva
sullo schermo non somigliava più alla realtà e io guardavo la gente
nella sala come se non l'avessi mai vista. È stato allora che ho
nuovamente provato la necessità di dipingere, di fare della
scultura, perchè la fotografia non mi dava in nessun modo visione
della realtà”. Sta parlando Alberto Giacometti scultore e pittore
svizzero di fronte ad un bivio della sua produzione pittorica e
scultorea. Prima infatti si era occupato di scultore surrealiste e
cubiste, Andrè Breton lo volle nel gruppo dei surrealisti, troppo
affini agli intenti del manifesto erano le sue opere (fig. 1.2).
Fig. 1 A. Giacometti, Donna distesa che sogna, 1929 |
Fig. 2 A. Giacometti, Punta nell'occhio, 1932 |
Quando però Giacometti ritornò alla fase della scultura dal vero,
con Breton fu la rottura, l'unica fonte per quest'ultimo doveva
essere la componente onirica, giammai il reale. Lo stesso Alberto
affermò in una intervista del 1962 che vedeva quel periodo
surrealista come transitorio, lo affascinavano più gli artisti che
le opere. Ora con questa nuova visione della realtà che l'artista ci
ricorda come contrapposta al cinema, la realtà e il cinema, così
come la fotografia sono antitetiche, la realtà contiene un surplus
che l'artista deve tirare fuori. La fase più conosciuta e nota delle
sculture scheletriche di Giacometti ha origine da un'opera del 1936,
la donna che cammina, una scultura filiforme molto classica, senza
braccia e acefala (fig. 3).
Fig. 3 A. Giacometti, Donna che Cammina 1934 |
La posizione denota solo un'accenno del
passo e la struttura è a colonna, molto affine alle sculture egizie
che Giacometti tanto amava. Da quest'opera fu tutto un processo di
sottrazione più che di addizione per cercare il valore aggiunto
della nuova realtà sentita dal maestro. Le statue con l'ossessione
dello studio dal vero, diventavano sempre più piccole. C'è una
sintonia con la filosofia esistenzialista di Sarte, i due si sono
conosciuti e si sono frequentati, tuttavia sembra che la poetica di
Sartre sia stata più influenzata da Giacometti che viceversa, come
spesso si è tentato di affermare. Leggiamo nell'Essere e il Nulla: "Esiste una quantità infinita di realtà che sono abitate
nella loro infrastruttura dalla negazione, come condizione necessaria
della loro esistenza. La funzione della negazione varia a seconda
della natura dell'oggetto considerato. Diviene impossibile in ogni
caso respingere queste negazione in un nulla extra-mondano perchè
esse sono disperse nell'essere, sostenute da esso e dalle condizioni
della realtà. Il nulla se non è sostenuto dall'essere, svanisce in
quanto nulla e noi ricadiamo nell'essere. Il nulla non si può
annullare che sulla base dell'essere, se del nulla può essere dato,
ciò non avviene ne prima ne dopo l'essere, nè in caso generale, al
di fuori dell'essere, nel suo nocciolo, come verme". Il nulla
come condizione dell'essere e viceversa, Giacometti ha imparato da
Sarte che il vuoto e l'essere stesso, e il processo di spogliazione
dell'essere umano fino a renderlo osseo, rivela questa apparente
contraddizione. E' il poeta Giorgio Soavi ad avvertirci “"La
traccia più nobile della sua arte sta in quello che non dice" ,
l'essenza sta nel non detto, nel non rivelato.
Le sculture si
fanno sempre più piccole tanto da farle stare in una scatola di
fiammiferi, ma esse sono ben ancorate al suolo, alla terra, le figure
hanno dei pesanti piedistalli, stanno in su grazie a piedi
sproporzionati spesso rispetto al resto del corpo. Il maestro ci
mette all'erta: “ " ho continuamente l'impressione della
fragilità degli esseri viventi, come se fossero continuamente
minacciati di collasso e occorresse loro un'enorme quantità di
energia in ogni istante per restare in piedi. È nella fragilità che
le mie sculture sono realistiche". Fragilità, realtà, essere,
nulla: concetti che prendono vita anche nella declamata
“impossibilità” di raggiungere l'assoluto, rincorso con ogni
mezzo durante tutta la vita di Giacometti. Consapevole
dell'impossibilità di raggiungerlo in una tensione che però non ha
fine: “Cosa possa oggi significare la scultura e a cosa corrisponda
non ne so ancora niente; fino ad oggi sono stati tentativi falliti,
ricerche, non è stato fare della scultura, è un tastare il terreno
per trovare cosa si può farne". Con queste parole pronunciate
alla fine della sua vita Giacometti ribadische che il destino è il
fallimento oppure la morte. Molte sue opere non sono state esposte
perchè le distruggeva o le modificava in continuazione. Quando
andava a dormire dopo aver lavorato tutta la notte fino ad essere
esausto, il fratello Diego portava a fondere alcuni gessi lasciati
sul tavolo e non ancora finiti, molte opere che oggi ammiriamo ci
sono pervenute solo grazie alla prontezza del fratello che
letteralmente le sottraeva al maestro per esporle e venderle.
Solo nel 1947
con la celebre scultura “l'uomo che cammina” (Fig. 4) Giacometti si trova
nella sua maturità stilistica.
Fig. 4 A. Giacometti, Uomo che cammina 1947. |
É la figura di un uomo saldamente
ancorato al terreno con dei piedi enormi, leggermente flesso in
avanti e con le braccia lungo il corpo è una visione di un uomo a 10
metri di distanza. “E' questa che bisogna rendere, e a dieci metri
di distanza. Bisogna che, a scultura finita, si abbia la sensazione
che si trovi a dieci metri e che stia camminando”. La superficie
del corpo è scabra e precaria, il principio della sottrazione ha
raggiunto una forma, un limite. Le sue opere evocano la morte, spesso
Giacometti si sofferma nei suoi scritti su questo tema. Nel racconto
“il sogno, lo Sphinx e la morte di T, l'artista si sofferma sulla
morte di T, un personaggio realmente vissuto cui ha assistito per
caso alla sua sua morte: “"Strada facendo rividi T nei giorni
che precedettero la sua morte, nella camera attigua alla mia, nel
piccolo padiglione in fondo al giardino dove entrambi abitavamo. Lo
rividi sprofondato nel letto, immobile, la pelle giallo avorio, tutto
raggomitolato su se stesso e già stranamente lontano, e lo rividi
poco dopo, alle tre del mattino, morto, le membra di una magrezza
scheletrica, proiettate davanti divaricate, abbandonate lontano dal
corpo, un enorme ventre gonfio, la testa riversa, la bocca
spalancata. Mai nessun cadavere mi era parso così nullo, avanzo
miserabile da gettar via come il cadavere di un gatto sul bordo di
una strada. In piedi, immobile di fronte al letto, guardavo quella
testa divenuta oggetto, minuscola scatola, misurabile,
insignificante.” Il cranio diventa un oggetto, come una scatola,
senza vita, eppure mai come ora il rapporto vita morte si restringe.
Ancora una volta è Sartre a illuminarci sull'opera di Giacometti, ammetto che: «a prima vista sembra di avere davanti
gli scheletrici martiri di Buchenwald (campo di concentramento). Ma
un momento dopo hai un’impressione del tutto diversa: queste figure
sottili e slanciate s’innalzano verso il cielo».
Spesso
l'arte e la vita sono uniti negli artisti, anche in molte forse
troppe esperienze del contemporaneo, ma in Giacometti vi è un rigore
intellettuale che lo spinge ad essere tutt'uno con le sue opere,
magistralmente Cartier-Bresson lo ha ritratto sotto la pioggia
nell'atteggiamento di riparo dal mondo, chino come le sue statue con
la testa appena fuori del cappotto, sembra abbozzata come i coni
filiformi (le teste) che campeggiano nelle sue tarde opere. (Fig. 5)
Fig. 5 Henri Cartier-Bresson, Giacometti che attraversa Rue D'Alesia, 1961 |
Bibliografia:
Alessandro
Del Puppo, Giacometti
e la nuova immagine dell'uomo,
il sole 24 ore, E-Ducational 2008
Giorgio
Soavi, Il
sogno di una testa, ed,
Mazzotta, Milano 2000
Alberto
Giacometti, Scritti,
AbsCondita,
2001 Milano.
Gerard-Georges
Lemaire, Giacometti,
in
ARTe Dossier, Giunti
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RispondiEliminaCiao Marco.
RispondiEliminaChe bello, ho conosciuto meglio Giacometti che nei miei studi era sempre messo in disparte, non so perché.
Credo che nei suoi lavori volesse tirare fuori l'anima, solo che il più delle volte spariva perché trasformata in nulla. Ci credo che si arrabbiasse e distruggesse tutto! Era una cosa molto difficile forse impossibile da realizzare...ma non amo molto la parola impossibile...non so...
Abbraccio grande ed eccellente post. Ciao.