mercoledì 22 gennaio 2025

Il sole maestro d’ombra. Le Corbusier e la torre d’ombre.


 

Il sole maestro d’ombra. Le Corbusier e la torre d’ombre.

Non è facile parlare dell’opera di un gigante dell’architettura come LeCorbusier sia per la quantità delle sue opere che per lo sconfinamento in campi vari dell’arte, non solo architetto, ma pittore, scultore, scrittore, divulgatore, poeta potremmo anche dire. La sua grandezza nel Novecento è pari forse solo a Picasso nel campo artistico, migliaia di pagine sono state scritte su Le Corbusier, e se ne continuano a scrivere, sintomo che i veri maestri creano opere la cui ermeneutica è inesauribile. In questo scritto oggi tenteremo di analizzare una piccola opera, ma molto significativa, per capire la poetica lecorbusieriana, la sua attenzione al dettaglio, al contesto, alla natura, e alla sua sperimentazione e interesse ai fattori bioclimatici. La “Torre d’ombre” è un edificio a-funzionale, potrebbe essere paragonato ad un monumento, come “la Mano Aperta” di Chandigarth, la città-utopia, realizzata da LeCorbusier nel Punjab, in India tra il 1952 e il 1965.

Le prime versioni della “Torre d’ombre” sono state pensate da LeCorbusier tra gennaio e febbraio del 1956 e tra il gennaio e febbraio del 1957. Due versioni che accompagnavano gli schizzi di progetto a diagrammi solari, in cui veniva studiato l’andamento del sole e l’incidenza sull’edificio. Due ipotesi si presentano: la prima prevedeva l’orientamento delle facciate verso i 4 punti cardinali, ruotata di 45° rispetto al palazzo del Campidoglio, nella seconda invece la Torre era orientata secondo la griglia urbana dei palazzi del Campidoglio.

Si optò per la prima ipotesi, la Torre d’Ombre segnava così una sorta di “rottura” della rigida griglia modulare della città. Forse per accrescere le potenzialità del sole sull’edificio orientandola secondo i punti cardinali la Torre, veniva ad essere una sorta di manifesto dell’uso dei Brise-soleil così cara nell’architettura di LeCorbusier. I brise-soleil di cui LeCorbusier, fu uno dei primi architetti a farne un uso sistematico, sono dei setti in cemento armato integrati con la struttura che servono a riparare dal sole, e attutire il calore all’interno dell’involucro edilizio, soprattutto a certe latitudini. L’attenzione al sole e alla sua influenza sull’abitare moderno ha sempre attirato molto il fare architettonico di LeCorbusier, ricordiamo questa frase dalla Carta d’Atene del 1931

“Il sole deve penetrare ogni abitazione diverse ore al giorno, anche durante la stagione quando la luce solare è più scarsa. La società non sarà più tollerare una situazione in cui intere famiglie sono tagliati fuori dal sole e quindi condannati a declino della salute. Chiunque disegni abitazioni in cui anche una sola abitazione è orientata esclusivamente al nord, o è privata del sole, perché si è gettato in ombra, è duramente condannato.”

L’idea della Torre d’ombre è forse da ricercare nei primi viaggi verso l’Oriente di LeCorbusier giovane, vi è forse un sottile legame tra gli schizzi fatti per Atene e Pompei e i primi schizzi per Chandigarh, almeno alla scala urbana, poi nei dettagli i riferimenti sono diversi.

La torre si diceva si trova sull’asse principale del Campidoglio tra l’Alta Corte e il Palazzo dell’Assemblea, ed è costruita come uno scheletro, un edificio spogliato di ruoli istituzionali: “tutto è ridotto a sequenze, ritmi melodie”(F. Venezia, “La Torre d’Ombre” op. cit.). Una ulteriore complessita è inserita nell’attico, che, ruotato di 45°, rispetto al resto dell’edificio, “ricuce” quella griglia urbana “spezzata” nei piani inferiori. É un gioco di risonanze, forse il maestro voleva dimostrare l’efficacia dei brise-soleil, anche nei piani non allineati ai punti cardinali. Brise-soleil che hanno una duplice valenza, di filtro e barriera, infatti percorrendo l’edificio nelle parte est- ovest da un verso fungono da barriera e non permettono di vedere fuori, dall’altro filtrano gli altri edifici del Campidoglio. A seconda dei punti di vista la Torre si smaterializza o si ispessisce, non è mai statica, e a questo concorre naturalmente anche il sole, che gioca e fa da “maestro delle ombre”. Un gioco che include, oltre alla visione, il tempo e la percezione cambia nel corso della giornata e delle stagioni. Non è semplice la lettura della Torre d’ombra presuppone un tempo e un percorso, che non tende ad una meta, così come per il viaggiatore il cuore del viaggio non è la meta ma lo stesso viaggiare. La luce crea e scolpisce l’architettura, l’edificio solido statico non esiste più, vi è transizione, mutamento d’ombre, gioco tra istante e durata, lo sguardo il tempo non si fissa.

La luce governa il ritmo della tessitura della facciata, e modifica l’apparenza dell’architettura, per citare P. Valery: ”preparava alla luce uno strumento incomparabile, che la diffondeva, permeata di forme intelligibili, e di proprietà quasi musicali, nello spazio in cui si muovono i mortali.”
Un’architettura, mi si permetta la citazione, “fluida”, e ritmica. Non a caso LeCorbusier per le prime stesura chiama come consulente Iannis Xenakis, architetto e musicista, poliedrico personaggio, aiutante del maestro in diversi progetti.
Costruita postuma nel 1986, dopo 30 anni dalla sua concezione, la Torre d’Ombre è purtroppo lasciata all’indifferenza generale, l’erba vi cresce all’interno, e la vegetazione rovina l’opera. Forse il fatto di non avere una funzione specifica, ma essere solo un simbolo, quasi una scultura, la fa vedere come opera sperimentale, ma avrebbe bisogno di essere rivalutata. Inoltre in questa mia breve ricerca, ho trovato poco materiale disponibile a capire l’opera, l’unico libro dedicato in italiano è quello citato di F. Venezia “La Torre D’ombre” la cui prima edizione risale al 1977, e alcuni (pochi) articoli su riviste specializzate.

Esterno della Torre D’ombre.

Riferimenti bibliografici:


Sulla: Torre d’Ombre
Francesco Venezia: La Torre d’Ombre o l’architettura delle apparenze reali, 1988 sec. ed. Venezia Arsenale.
Sito ufficiale della documentazione: www.fondationlecorbusier.fr
LeCorbusier versione inglese della Carta d’Atene:
CIAM’s “The Athens Charter”(1933)

Translated from the French by Anthony Eardley.

From Le Corbusier’s The Athens Charter.
(Grossman. New York, NY: 1973).
Daniel Siret, Amina Harzallah: Architecture et contrôle de l’ensoleillement, CERMA – UMR CNRS 1563

Daniel Siret: 1950 – Studies in Sunlight – Tower of Shadows (Chandigarh), Ed. Echelle-1 C/o Codex Images International
José Calvo López: LA TORRE DE LAS SOMBRAS. UTOPÍA SINCRÉTICA Y SÍMBOLOS COSMOLÓGICOS EN LA OBRA ÍNDICA DE LE CORBUSIER

Su Iannis Xenakis:
Iannis Xenakis,
Musica Architettura, ed. Spirali, 2003 Su Paul Valery:
Paul Valery, Eupalinos o l’architetto, Mimesis, 2011 Paul Valery, Quaderni, Adelphi, 1985,

martedì 14 gennaio 2025

Dom Hans Van der Laan e l’architettura del silenzio.

Dom Hans Van der Laan e l’architettura del silenzio.


Nella sterminata produzione architettonica novecentesca poche sono le pepite d’oro che si trovano e che ahimè sono così poco conosciute.

L’abata Van der Laan, benedettino architetto filosofo e inventore di una teoria delle proporzioni è una di queste rarità.

Olandese di nascita, e nono di una stirpe di 11 fratelli, Van der Laan nasce nel 1904 a Laiden, il padre era architetto anch’egli. In un’intervista del Marzo del 1988 è Van der Laan stesso a parlarci della sua biografia, una vita spesa nella ricerca, nel lavoro e nella preghiera. Una vita divisa in due prima della guerra (seconda mondiale) e dopo.

E una preparazione che aveva affrontato il tema della natura, della società, e da ultimo della liturgia. Scrive infatti “Quella crescita fu nettamente segnata da tre fasi, tre percorsi di esporazione solitaria che sono ancora riconoscibili nel mio ultimo libretto sulla composizione della liturgia: il viaggio di conoscenza prima della natura, poi della società e, infine della liturgia.”

Detto in altri termini materia, intelligenza e fede. Subito Van der Laan si rende conto della dicotomia uomo-natura, dell’appartente contraddizione tra cose artificiali e cose naturale. La sua teoria parte dal presupposto della grande analogia. L’enteCreatore Dio, è simile (analogo) all’ente creato uomo, entrambi creano. L’uomo da creato si fa creatore di forme mentre la natura, l’intero universo naturale è infinito e non è capibile dall’intelletto umano. Come rendere accessibile all’intelligenza umana la natura? Van der Laan propone la misurabilità e le proporzioni per accedere a quegli infiniti misteri della natura. A questo proposito fa un esempio, lo racconta lui stesso: da piccolo in cantiere con il padre, vide un operaio che con un settaccio divideva dei sassi grandi da dei sassi piccoli, e con l’intuizione capì che noi non sapremo mai la vera grandezza di tutti quei sassi, ma il settaccio ci permetterà di dividere o meglio classificare i sassi in piccoli, medi o grandi. Ecco dunque l’inconoscibilità della natura (tutti i sassi) e la necessità di misurare gli enti naturali da parte dell’uomo per renderli percepibili. Attenzione la volontà creatrice umana è però vincolata alla natura, Van der Laan fu un assiduo lettore dellaCittadella di A.D. Saint-Exupery e da questa citiamo: ” il creatore non è mai presente nell’oggetto che crea e la traccia che lascia di sè è pura logica”, assoluta fedeltà alla natura, tutto ciò che creiamo deriva dalla natura all’uomo non resta che trasformare gli oggetti in elementi che servono alla sua vita: il legno diventa panca, la sabbia cemento; il fare dell’uomo è un “ricreare” o un “rifare”.

Da un lato quindi la natura illimitata dall’altro l’uomo che limitato che nel processo di creazione di oggetti artificiali rende intelligibile i misteri nascosti nella natura. L’uomo deve ordinare questo mondo in un mondo più piccolo ricreando un microcosmo a lui capibile. Ma quale metodo, quali strumenti usare per rendere il mondo capibile? Van der Laan studia per tutta la vita un sistema proporzionale che va sotto il nome di “Numero Plastico” una teoria molto complessa che si basa su regole percettive dell’occhio e su una serie molto complessa di relazioni. Influenzato da studi sulla musica e in particolare sul canto gregoriano, Van der Laan afferma: “con le otto note dell’ottavo costruiamo tutto il nostro repertorio musicale, e dalla progressione continua dei colori dello spettro separiamo i sei colori cui possiamo dare un nome,” allo stesso modo mediante le otto dimensioni del “Numero Plastico” è possibile orgarizzare tutta la vastità de1lo spazio architettonico.

Anche la sezione aurea dava una regola al costruire, l’abate la conosceva bene, tuttavia aveva secondo lui dei forti limiti, innanzi tutto non teneva conto della terza dimensione era piatta, solo in superficie non adatta a creare volumi, inoltre il numero plastico “produce un numero maggiore di differenti e interconnessi rapporti proporzionali poichè non risulta da quantità numeriche fisse”...”ma da ordini e tipi di grandezza”. Il “Numero Pastico” sarà per Van der Laan l’ossessione di tutta la vita, elaborandolo sempre più come strumento di costruzione non solo architettonica ma anche per il vestiario e per gli oggetti liturgici, afferma infatti: “Assoggettando alle regole del numero plastico (che sta alla base dell’espressività della composizione) tutti gli spazi e le forme dell’architettura, nonchè le forme del vasellame, della mobilia e dei paramenti, la semplice forma base delle cose può venire ampliamente nobilitata.”; servendosi di un abaco da lui stesso costruito (fig. 1) lo userà per ogni suo oggetto progettato.


Fig. 1 Abaco di Van der Laan

Ma la teoria del “Numero Plastico” non basta a fare di Van der Laan un grande architetto, egli infatti voleva rifondare il metodo del costruire, si serve della base: il trattato vitruviano e di un riferimento senza tempo: Stonehenge (Fig. 2,3,4).


Fig. 2 Stonehenge stato di fatto


Fig. 3 Stonehenge ricostruzione.


fig. 4 Stonehenge Disegno di studio.

Da quell’architettura ancestrale Van der Laan ricaverà una serie di disegni e di teorie sulle primitive forme dell’abitare, là per la prima volta troviano il concetto i trilite (2 pilastri e un architrave) riproposto nelle sue architetture, e il concetto di cella. La tesi fondativa è che l’abitare sia suddiviso in tre differenti tipi di spazio (cella, cortile e dominio), da essi e dalle diverse combinazioni di questi elementi si è costruita negli anni la forma dell’abitare. Citando la chiesa di Santa Sofia, il maestro olandese rielabora le proporzioni definendo l’architettura della chiesa come una serie di celle.

Padre Van der Laan elabora anche progetti di città basandosi su questi concetti della cella del cortile e del dominio. (fig.5, 5a, 5b).

Fig. 5 Disegni esemplificativi della composizione di cellule unitarie in quartieri e città





Fig. 5a Fig. 5b
L’opera maggiore e più importante di Van del Laan è il rifacimento dell’abazia di San Benedetto a Vaals (fig. 6,7,8,9, 10), un’architettura in cui il padre darà forma alle sue teorie del Numero Plastico.

Fig. 6 Abazia di San Benedetto a Vaals, particolare scala


Fig. 7 Abazia di san Benedetto a Vaals, esterno

Fig. 8 Abazia di San Benedetto a Vaals. .




Fig. 9 Abazia di San Benedetto a Vaals. Interno del refettorio


. Fig. 10 Abazia di San Benedetto a Vaals. Interno della chiesa.



Qualsiasi misura infatti, dallo spessore dei muri ai paramenti ecclesiastici ai mobili ai calici per la liturgia saranno sottoposti a questa regola proporzionale (fig. 11,12,13,14,15).


Fig. 11 Progetto di calice.


Fig. 12 Abazia di San Benedetto a Vaals, Tavolo con sedie.





Fig. 13 Abazia di San Benedetto a Vaals. letto singolo


Fig. 14 Progetto di paramento sacro.



Fig. 15 Paramento sacro disegnato da Van der Laan.


Il tutto doveva far parte di quell’idea che Van der Laan aveva della Liturgia. Egli infatti pensava che la liturgia fosse il “complesso di simboli, di canti, di atti mediante i quali la chiesa esprime e manifesta la propria religione verso Dio” . La Litugia si esprime attraverso un insieme di forme che diventano veicoli dei rapporti interpersonali, queste forme servono a esprimere il rapporto tra uomo e Dio e servono ad esprimere una religione. Nello scritto “Architettura e Liturgia” apparso nel 1978 il padre olandese afferma: ” I simboli sono oggetti che hanno la particolarità di possedere il valore dei segni. I canti sono parole il cui sono e la cui durata sono coltivati dalla melodia e dal ritmo fino ad acquisire, oltre a quello meramente verbale, un significato speciale. I gest, infine, sono azioni umane che al di là del tenore immediato e fisico mirano a manifestare un contenuto più profondo”. Le forme ricalcano i tre stadi della vita del frate di cui abbiamo parlato, le forme naturali, le forme sociali e infine le forme liturgiche “che fungono tutte da segni finalizzate all’espressione del contatto dell’uomo con Dio: all’espressione di una
 religione”.

Infine l’architettura di Van der Laan è apparentemente semplice, le curve non estistono, le decorazioni neppure, sono i materiali poveri che creano le decorazioni, e potremmo dire che le proporzioni intuite quando si percepiscono all’occhio e alla senzazione si “stare” dentro una chiesa progettata dal padre olandese, hanno preso il posto degli ornamenti. La luce è calibrata benissimo, luce naturale si capisce, le gerarchie architettoniche (dentro-fuori, natura artificio, collegamenti e stanze) sono rispettate, le differenze strutturali tra portante e portato sono ben visibili. È un’architettura apparentemente fatta di “poco” ma induce alla riflessione, e la bellezza non è un fine ma un mistero che si percepisce appena. È il lavoro inteso come vocazione di una vita, e la preghiera, la perseveranza della misurabilità di ogni cosa, che rendono le architetture del padre uniche; da esse traspare il silenzio, la pace la purezza d’una volontà ferrea. Mille miglia lontano da chi in quegli stessi anni e nei contemporanei soprattutto “gioca” con l’architettura permeandola di forme artistiche che non fanno che esprimere il gigantesco ego degli architetti contemporanei. Una lezione quella di Van der Laan, non solo stilistica, ma metodologica e di vita.

Bibliografia:
TIZIANA PROIETTI,
Ordine e proporzione. Dom Hans van der Laan e l’espressività dello spazio Architettonico, ed. Quodlibet 2015
ALBERTO FERLENGA,
Dom Hans van der Laan. Le opere e gli scritti, ed. Electa, Milano 2000
TIZIANA PROIETTI,
La musica del numero Plastico, in “Musica e Architettura” Università degli studi la Sapienza, Dipartimento di Architettura.
ERICA CATERINA BUGATTI,
Dom Hans va der Laan e il numero plastico, Tesi di laurea Politecnico di Milano, A. Acc. 2011-2012
ALBERTO FERLENGA, “L’architetto dom Hans Van Der Laan” in Casabella n. 634, Maggio 1996
Wiel Arets e Wim van den Berg, “Architettura senza commento.Dom Hans van der Laan”, in Casabella 634 p. 46
Paola Verde, “Ampliamento dell’abbazia di San Benedetto a Vaals (Olanda)”, Casabella 634 p. 50
Sitografia:
http://www.vanderlaanstichting.nl/en/home/, Van der Laan Fondation http://www.benedictusberg.nl/



martedì 7 gennaio 2025

Schinkel: La grande composizione

Schinkel: La grande composizione.



Molti critici sono concordi nell’affermare che le ultime opere “utopiche” di Schinkel

siano in realtà molto più realistiche che “fantastiche”.

L’opera di Schinkel può essere facilmente classificabile in quattro periodi. Un primo

periodo che riguarda i suoi viaggi in Italia, l’attenzione per l’architettura gotica

(saracena come la chiama lui) e il mito classico dell’architettura e dei paesaggi

italiani.

Un secondo periodo in cui si passa dal gotico al classico: i progetti per Potsdam.

Un terzo periodo la realizzazione di Berlino come Atene del nord, l’acmè della sua

architettura classica sulla capitale prussiana: sono di questo periodo l’Alt Museum,

la Neue Wache, il duomo al Lustgarten, e il teatro Nazionale. Per concludere la sua

parabola lavorativa con i progetti cosìdetti “fantastici”, la ricostruzione delle ville di

Plinio, il progetto per l’Acropoli di Atene e il progetto per un palazzo in Crimea ad

Orianda.

Tralascieremo i primi tre periodi e parleremo del quarto periodo, i progetti tardi: le

grandi composizioni, rimaste sulla carta forse perchè fuori della portata dei

committenti.

Schinkel si forma come pittore e scenografo, al ritorno dal suo viaggio in Italia, sulla

scia del Grand Tour che gli artisti e scrittori tedeschi facevano a quei tempi, egli

lavora a quadri e scenografie. Si distingue per i suoi diorami (fig. 1), erano questi

dei grandi cilindri in cui al centro si potevano osservare gradi vedute panoramiche

sotto un’illuminazione carica di espressività, accompagnati spesso da una musica

di sottofondo o da letture di poesie.



Fig. 1 K. F. Schinkel, Diorama di Palermo.

Una concezione nata da un famoso pittore romantico della fine del Settecento:

Philipp Otto Runge, che aveva ideato una serie di dipinti intitolata le “quattro fasi

del giorno” (fig. 2) in cui il visitatore doveva andare oltre la pittura e la mera visione

pittorica, è l’embrione di quella che sarà “l’opera d’arte totale”, nella stessa sala di

esposizione di queste pittura un’orchestra avrebbe dovuto eseguire una colonna

sonore adatta, e un lettore declamare poesie.



Fig. 2. Otto Runge, Le quattro fasi del giorno. Mattino.

Una prima proposta avanguardistica di immersione totale dello spettatore nell’arte

in cui vengono stimolati anche altri sensi oltre alla vista e in cui la pittura sfugge alla

raffigurazione tradizionale per andare in quell'”oltre” tipico del Romanticismo.

Con il Romanticismo infatti si attua quella rottura del “patto mimetico” con la realtà

per cercare nel sogno, nel sentimento, nell’inesplorato frammenti di mistero.

Schikel tuttavia dopo un primo periodo di adesione allo stile gotico , in cui i suoi

quadri sono molto vicini ad un romanticismo (fig.3) proprio di Caspar David

Friedrich, si abbandona ad una adesione al classico e al mito dell’arte Antica, per

lui infatti le grandi epoche della storia dell’uomo sono state: la grecia antica, la

Roma antica e l’arte medievale.



Fig. 3 K. F. Schinkel, Cattedrale su città,

1813.

Anche nei suoi viaggi in Italia è poco interessato all’arte rinascimentale, molto di più

alle opere medievali, le case di campagna, secondo lui il rinascimento non ha fatto

che copiare stili altrui: ” Ogni epoca principale ha lasciato il proprio stile

nell’architettura, perchè non vogliamo tentare di trovare uno stile anche per la

nostra? Perchè dobbiamo sempre e soltanto costruire secondo lo stile di un altra

epoca?” egli afferma nel 1830.

Il suo manifesto alla adesione al mito greco è un quadro di cui noi abbiamo solo

una riproduzione perchè l’originale del 1825 è andato perduto: il “Blick in

Giriechenlands Bluthe” (Visione della fioritura nella Grecia) (fig.4);



Fig. 4 K. F. Schinkel, Visione della fioriturain grecia, 1825


dalle stesse parole di Schinkel si capisce la sua scelta: “I paesaggi costituiscono un

particolare motivo di interesse, quando vi possiamo vedere le tracce di una

presenza umana. La vista di un paese nel quale nessun uomo abbia ancora messo

piede, può offrirci una sensazione di grandiosità e bellezza, ma l’osservatore

rimarrà incerto, inquieto e triste(…) La seduzione del paesaggio viene elevata

quando in esso si daranno precisa evidenza alle tracce dell’uomo, o

rappresentandolo nella forma di un popolo ancora ingenuo e originario nella sua

età dell’oro (..) oppure dando piena rappresentazione alla maturità culturale di un

popolo altamente sviluppato capace di servirsi in modo appropriato di ogni oggetto

della natura in modo da ricavare un più alto piacere sia per la vita del singolo

individuo sia per quella del popolo stesso nella sua interezza. Nell’immagine di

questo popolo si può vivere e lo si può comprendere in tutti i suoi aspetti umani e

politici. Questo dovrebbe essere il compito di questa immagine, e, a tal fine, scelgo

come esempio “La fioritura della Grecia””

Si intuisce da queste poche parole che l’intento era per Schinkel quello di fare della

Prussia una nuova Grecia, un intento politico e culturale che lui stesso ha portato

avanti con la sua architettura.

I primi “progetti fantastici” Schinkel gli elabora a partire dal 1833 quando è in età

matura e la sua fama è già grandiosa, non solo in Prussia ma anche oltre confine.

Tuttavia le origini di queste visioni le troviamo già nel suo primo viaggio in Italia, in

cui immagina il Duomo di Milano dislocato in una grande città sul mare forse

Trieste. Schinkel parla di questo disegno (fig. 5) come di un “progetto per uno

scenario di teatro, una cattedrale il alto sopra una grande città sul mare” non

esistono prove di un effettivo uso come scenografia di questo disegno,

probabilmente un’idea di Schinkel che rimase sulla carta.



FIG. 5 K. F. Schikel, Disegno del duomo di Milano

a Trieste.

Inoltre già nei suoi famosi diorami Schinkel disegnò il tempio di Giove a Olimpia, il

tempio di Diana a Efeso e il mausoleo di Alicarnasso.

Ma il primo vero progetto grandioso fu la ricostruzione della villa di Plinio per il

principe ereditario Friedrich Wilhelm nello Charlottenhof a Potsdam, siamo nel

1833, e per due anni Schinkel si impegna al disegno di questa dimora. Legge

direttamente la descrizione di Plinio il giovane sulla villa Laurentina e sulla villa

Tusca. Nelle lettere a Gallo, Plinio descrive prima una villa affacciata sul mare: la

villa Laurentina (fig. 6), poi la villa Tusca (fig. 7).



Fig. 6 K. F. Schinkel, Villa Tusca.



Fig. 7 K. F. Schinkel, Villa Laurentiana.

Già altri aveva tentato di ricostruire queste ville la declinazione Schinkeliana

prendeva spunto anche dalle descrizioni di Vitruvio sulle ville romane e dalle recenti

scoperte archeologiche di Pompei ed Ercolano in cui il suo amico e maestro Alois

Hirt era impegnato. La villa laurentina è progettata in modo semplice e dal mare il

prospetto (fig. 8) sembra una fortezza: la struttura è povera e poco decorata, ma

questa corrisponde alla semplicità delle case romane.



Fig. 8 K. F. Schinkel, Villa Laurentina, 1835

In pianta figura come un complesso architettonico chiuso, le abitazioni si collegano

con giardini, campi da gioco, ambulacri. La villa Tusca (fig.9) sembra più un

palazzo di rappresentanza che una singola villa romana, non è dato sapere il sito,

probabilmente Schinkel la pensava per l’appennino toscano. Da segnalare in

questa opera l’ideazione dell’ippodromo con uno “stibadium” luogo per il riposo e

per il pranzo, citazione diretta e letterale delle descrizioni di Plinio il Giovane.



Fig. 9 K. F. Schinkel, Villa Tusca.

Prospettiva esterna.

Il secondo tardo progetto di Schinkel da inserire nelle grandi composizioni è il

Progetto per un palazzo sull’Acropoli di Atene datato 1834 (fig. 10).



Fig. 10. K. F. Schinkel, palazzo sull’Acropoli

di Atene. Pianta.

L’idea di costuire un palazzo di rappresentanza sede del governo greco è del

principe ereditario Friedrich Wilhelm di Prussia, che, da sempre interessato all’arte

e al mondo antico incaricò Schinkel del progetto.

Dapprima titubante, la sua indole costruttiva, abbiamo già detto, lasciava poco

spazio a progetti così grandiosi, poi generoso progettista dell’opera. Il palazzo

doveva sorgere in un area libera ad est “dietro” il Partenone, e il palazzo non

doveva in alcun modo sovrastarne l’altezza, una sorta di rispetto dell’antico, quasi

fosse irrangiungibile.

Schinkel inserisce tra queste costruzioni i giardini, un ippodromo, i pianterreni, le

terrazze. Il palazzo si articola in vari gruppi di edifici e spazi: “la corte delle

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meraviglie” e “la sala della rappresentanza” ne costituiscono il fulcro. Vediamo la

sala di rappresentanza (fig.11):



Fig. 11 K. F. Schinkel, Palazzo sull’Acropoli, sala di

Rappresentanza.

a nord si apre un giardino abbellito da fiori e aranci, a sud attraverso una trama di

colonne si scorge il mare. Le capriate di questa sala sono visibili nella sala e sono

decorate con animali fantastici e reali, come leoni, leopardi, grifoni ecc. Tutta

l’armatura in legno è dipinta con bei colori per la maggior parte rosso e verde

pallido combinati con l’oro. Questa visione della struttura di copertura non è proprio

greca o romana ma Schinkel vuole porre le base di questo suo pensiero tecnico: “la

struttura a prima vista straordinariamente complicata è completamente spiegabile

con riflessioni tecniche”. Se si possono fare dei paralleli diremo che la struttura

assomiglia a costruzioni inglesi, contemporane e medievali, con capriate aperte,

diciamo solo che Schinkel le ha elevate e abbellite ornandole ed esaltandone la

forma, rendendole diciamolo pure principesche.

Il progetto del palazzo per l’Acropoli fallì per le condizioni povere della Grecia che,

nella corte di Atene non trovarono interesse e neppure un ringraziamento.

L’ultima grande composizione in cui Schikel sfocia nella megalomania, sempre però

misurata da un sapere cotruttivo è il palazzo ad Orianda in Crimea nel 1838, la

zarina russa chiese al fratello Friedrich Wilhelm IV principe di Prussia e a Schinkel

una residenza estiva per la famiglia dello zar. Il posto era sublime: un promontorio

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sul mare (fig. 12) e con questo progetto Schinkel “raggiunse l’apice della sua

formazione artistica”.



Fig. 12. K. F. Schinkel, Palazzo ad Orianda

in Crimea

Tenendo fortemente presente che Shinkel ha “seguito il semplice e solenne stile

della pura arte greca”, in questa opera la contamina con decorazioni e forme

esotiche e mosaici al fine di rappresentare il carattere: ” asiatico scitico,

semibarbarico di questa regione nell’antichità”. Il cuore dell’intera composizione è

un museo ipogeo (fig. 13) “Nella struttura del complesso ho cercato di conferire allo

zoccolo una più grande importanza, significato ed eleganza; cosicchè ho realizzato

l’interno come fosse una fresca passeggiata dentro una grotta.”



Fig. 13. K. F. Schinkel, Palazzo ad Orianda in Crimea,

Museo Ipogeo

Vedendo le sezioni sembra quasi che scavo e costruzione coincidano. La sala

ipostila del museo è caratterizzata da grandi piloni. Lo zoccolo ipogeo sembra una

forma pesante rispetto alla leggerezza del padiglione sovrastante. Due concezioni

sono presenti: l’idea del costruire per addizione di elementi: il tempio sovrastante e

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l’altra l’idea di sottrarre materia per costruire. Riccamente decorato si nota anche

una simbologia oscura nei disegni come l’aquila bicefala posta sopra il portale

d’ingresso.

Un altro elemento molto suggestivo è il porticato con le cariatidi sul terrazzo con

vista mare (fig. 14) “in questo progetto si fondono le proporzioni più eleganti e più

svariate (…) il più raffinato gusto greco sia nelle grandi che nelle piccole

decorazioni, con uno sfarzo orientale dovuto alla preziosità dei tipi di pietra e all’uso

dell’oro, cosicchè guardando ci si crede trasportati nel classico mondo delle

fate”( Gustav Friedrich Waagen, Schinkel als Mensche und al Kunsler).



Fig. 14. K. F. Schinkel, Palazzo ad Orianda in

Crimea, Porticato.

Anche questo progetto rimarrà solo sulla carta, forse Schinkel era consapevole di

questo, ma ha voluto mettere in pratica tutta la sua esperienza per creare un

sogno, una composizione fantastiche accentuata da un cromatismo proprio del

tardo classicismo i cui teorici erano in quel periodo Hittorf e G. Semper.



Bibliografia:

AAVV, 1781-1841 SHINKEL l’architetto del principe, Marsiglio Editore 1989

Paul Ortwin Rave, Karl Friedrich Schinkel, Electa 1989

M. Pogacnik, Karl Fiedrich Shinkel Architettura e paesaggio, Motta editore 1993

SEMINO G. P., Schinkel. Serie di architettura, Zanichelli, Bologna, 1993.

AA.VV., Le epifanie di Proteo, la saga nordica del classicismo in Shinkel e Semper,

Rebellato editore, 1983

Philipp, Klaus Jan, Karl Firedrich Schinke: spate Progecte, Axel Menges London

2000

K. F. Schikel, Raccolta di disegni di architettura: che comprende progetti che sono

stati realizzati e progetti di cui si prevedeva la realizzazione, F. Motta 1991 MI

Marko POGACNIK, La fabbrica e l’architetto. Il viaggio in Inghilterra di Schinkel, in

“Casabella”, n.651-652, dicembre 1997- gennaio 1998